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La fine di un solista

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Messaggio  Paolo Mar Nov 18, 2008 6:23 pm

VELTRONI E L'UNITA' DELLA SINISTRA

La fine di un solista

La linea del «niente nemici a sinistra» è sempre stata la pietra tombale di ogni riformismo.


di Ernesto Galli Della Loggia


Un passo dopo l'altro il Pd sembra rimangiarsi il suo impegno di neppure un anno fa di «andare da solo», di considerarsi potenzialmente maggioritario, e dunque di non avere bisogno di nessuna «unione» con altri. Come conseguenza, un passo dopo l'altro ritorna d'attualità l'unità delle sinistre. Lo indica tutta una serie di fatti: dalla nessuna presa di distanza da parte del Pd nei confronti della linea dura della Cgil di Epifani, all'appoggio senza riserve offerto al movimento contro le riforme volute dal ministro Gelmini, che pure hanno riscosso un favore tutt'altro che limitato al centro destra, alla crescente tentazione dell'antiberlusconismo duro e puro presentato di nuovo come argine necessario contro il «regime», alla gestione della questione della Commissione di vigilanza sulla Rai, infine alla presentazione di una candidatura unitaria (espressa dall'Italia dei Valori, e anche questo è significativo) per le elezioni regionali in Abruzzo.
Di per sé, naturalmente, nessuna di queste scelte è una scelta esplicita per l'unità delle sinistre. Esse lo diventano però dal momento che, complessivamente, allontanano inevitabilmente il Pd da una posizione riformista spostandolo su posizioni agitatorie e radicali tradizionalmente proprie delle forze alla sua sinistra, dai Verdi a Rifondazione. Sono scelte, ad esempio, che fanno incontrare al Partito democratico una piazza che esso ormai conosce e controlla solo in parte, e di cui quindi finisce spesso per essere più la coda che la guida. Sono scelte che di fatto consegnano la bandiera dell'opposizione, e dunque anche quella del Pd, nelle mani di categorie (i piloti), di pezzi di sociale (il magma studentesco), di protagonisti (Di Pietro, i comici!), che in realtà hanno a che fare poco o nulla con un moderno partito riformista. L'unità delle sinistre si sta riformando nelle piazze e negli studi televisivi.

E' chiara qual è la causa immediata di questo lento ma deciso abbandono da parte del Pd delle posizioni «soliste» abbracciate poco prima delle ultime elezioni. E' la debolezza della leadership di Walter Veltroni. Azzoppato dalla dura sconfitta elettorale; insidiato dalle continue, inestinguibili, lotte interne; incapace di comporre in un accettabile grado d'unità le due o tre diverse anime confluite nel Pd, Veltroni non è ancora riuscito a trovare — e a praticare — una linea politica d'opposizione capace di tenere insieme, e di rendere egualmente visibili, il profilo riformista del suo partito da un lato, e dall'altro la chiarezza del quotidiano contrasto rispetto al governo. Così, sentendo il terreno mancargli ogni giorno sotto i piedi, si è «buttato a sinistra », come si dice. Privo del consenso degli elettori ha cercato almeno quello dei manifestanti; persa la battaglia dei votanti, si è messo a sperare nelle lotte dei «movimenti». E ha consentito, anche con la sua voce, che divenissero sempre più forti le voci del no, della contrapposizione di principio, di un'esibita quanto dubbia diversità antropologica.


Ma non c'è solo la debolezza di un leader dietro la svolta in atto che sta irresistibilmente spingendo il Pd verso una riedizione dell'unità delle sinistre. C'è qualcosa di più profondo, ed è la sua evidente difficoltà di condurre una lotta politica su due fronti: proprio quella lotta, cioè, che, specie nell'ambiente italiano, così pervaso di vecchi e sempre nuovi massimalismi, è la linea obbligata di un partito riformista. Ma è un obbligo che il Partito democratico fa una terribile fatica ad assolvere perché per farlo dovrebbe abbandonare (e forse non avere mai neppure conosciuto) quella cultura di antica matrice comunista che esso invece ancora si porta dentro. Cultura che ha la sua premessa decisiva nell'idea che nella storia, alla fine, c'è posto solo per due parti: quella del bene e quella del male, destinate allo scontro finale.


Come evitare, però, se si adotta questa visione l'obbligo di stare tutti i buoni dalla stessa parte, tutte le sinistre insieme a sinistra? Si dirà che però di battaglie su due fronti, e cioè anche contro formazioni alla sua sinistra, il vecchio Pci ne fece tante: per esempio contro i trotzkisti o contro il terrorismo goscista. E' vero, ma non a caso, come ognuno ricorda, ogni volta esso sentì il bisogno, per farlo, di qualificare pubblicamente i propri avversari di sinistra come «fascisti» (lo stesso Craxi e i suoi non sfuggirono all'epiteto): ristabilendo così la dicotomia accennata sopra. In forza della quale, insomma, a sinistra c'è posto solo per una parte, per i buoni: cioè per «noi» e i nostri amici; tutti gli altri non possono che essere finti buoni, lupi travestiti da agnelli, «fascisti» appunto. Solo la cultura del riformismo socialista, rifiutando una visione manichea della storia, ha avuto storicamente la possibilità di combattere vere battaglie su due fronti, contro la destra e contro la sinistra radicale (perlopiù comunista), chiamando quest'ultima con il suo nome e accettando la sfida a sinistra.

Il Pd, invece, è preso in una morsa: se vuole essere riformista si trova di fatto ad avere, anche stando all'opposizione, dei nemici a sinistra che il suo riformismo stesso gli impedisce però di considerare «fascisti»; ma non essendo ideologicamente riformista abbastanza, non riesce ad accettare di essere combattuto e di combattere tali nemici, rinunciando all'idea di farseli in qualche modo alleati. Nasce da qui, alla prima occasione, il ricorrente miraggio dell'unità delle sinistre, altra faccia obbligata del «niente nemici a sinistra»: una linea che è sempre stata la pietra tombale di ogni riformismo. Schiacciato dalla quale Walter Veltroni minaccia di concludere oggi la sua appena iniziata avventura di «solista».


18 novembre 2008
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Messaggio  Malcolm Mar Nov 18, 2008 7:02 pm

Riformismo (socialista)? Non dicesse sciocchezze E. Galli Della Loggia! La posizione di Veltroni è quella: riformismo.
Se egli oscilla a volte tra Di Pietro e la piazza lo fa per la vecchia malattia di tutta la politica italiana (destra, centro, sinistra) che consiste nel realismo politico.
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Messaggio  Fast Mar Nov 18, 2008 8:42 pm

Anche a destra vi sono diverse sensibilità rispetto ai problemi da risolvere , ma di fondo non vi è una divisione totale sul tipo di sistema sociale ed economico nel quale agire.
A sinistra vi è una sostanziale difformità tra la società marxista , quella socialdemocratica e quella di matrice teodem.
Difficile conciliare, dopo eventuali accordi preelettorali, una governabilità condivisa.
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Messaggio  doc Mar Nov 18, 2008 9:04 pm

Il Pd a guida ds non può contenere riformisti.
Ex socialisti craxiani riformisti di sinistra sono tutti o quasi in FI.
Il Pd rimane un partito populista con estremi barricadieri che sono stati carnefici del socialismo italiano (dipietro il braccio armato).
Questa è l'eredità politica di tangentopoli.
Il centro destra contiene in se destra e sinistra (ex sinistra) non più comunista e converitata al socialismo.
Berlusconi ha intorno a se il socialismo riformista a Veltroni purtroppo per lui e per noi le scorie dopo la caduta del muro.
I senzaterra.
Il risultato è che SB guida un blocco che voleva essere il partito liberale di massa ed è un partito socialista di massa mentre uolter rimane un post a cui mancano linguaggio e strumenti.
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Messaggio  Fast Mar Nov 18, 2008 9:24 pm

Ringrazio DOC per uno spunto interessante al quale non avevo pensato. Il Partito Socialista (aggiungerei democratico) di massa che si è coagulato in F.I. prima e nel PdL ora.
Una analisi che va approfondita, in realtà amchel le ultime necessità contingenti alla crisi economica vedono più sulla cote socialista che su quella liberalcapitalista le ultime scelte del governo. Avremmo così una sinistra velleitaria formata da marxisti ortodossi, socialisti massimalisti e cattolici progressisti uniti solo dall'odio per un nemico comune. Ed una sinistra socialdemocratica rinforzata da liberali e che riaccoglie in seno una destra sociale non più destra ma ancora sociale.
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Messaggio  Malcolm Mar Nov 18, 2008 10:02 pm

Fast, hai scritto:
A sinistra vi è una sostanziale difformità tra la società marxista , quella socialdemocratica e quella di matrice teodem.

Nel centro sinistra non c'è più alcun riferimento alla "società marxista", ormai da molti anni.
Quanto ai cattolici, non conosco nessuna forza politica che ne faccia a meno.
I socialdemocratici erano quel partito che scomparve con Tangentopoli.
Non c'è più nessun ideale di società. La società è quella che esiste e che con le riforme va cambiata in meglio. Su questo, governo e opposizioni potrebbero trovare un accordo se smettessero di etichettarsi reciprocamente.
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Messaggio  Fast Mar Nov 18, 2008 11:07 pm

Malcom io ho scritto a "sinistra", nel centro sinistra si riconoscono i teodem e i massimalisti bnella sinistra il PRC, IComunisti Italiani e le varie frange movimentiste, che mi pare nrivendichino buona parte delle teorie marxiste. E, purtroppo, il centrosinistra senza la sinistra non può vincere: dunque la imbarcherà nuovamente . Poi avremo dei veterofascisti come DiPietro alletati con i veterocomunisti come Rifondazione.
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Messaggio  Malcolm Mer Nov 19, 2008 10:33 am

Ma a noi della sinistra cosa interessa?
Ormai si andrà - io penso - oltre il "vinco io - vinci tu" e perciò il centro sinistra potrà benissimo fare a meno delle frange (sinistra+Di Pietro). Oltre il vinco io - vinci tu - c'è il paese, i veri problemi del paese. E' il paese che deve vincere.
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Messaggio  Fast Mer Nov 19, 2008 10:38 am

A noi della sinistra interessa niente, ma vedrai la corsa al compattamento a sinistra per le prossime avventure elettorali.
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Messaggio  Paolo Ven Nov 21, 2008 8:22 pm

Prima pagina

Caro Walter, io me ne vado


Caro Walter, ti scrivo perché ho deciso di dimettermi dalla Direzione nazionale del Partito democratico. Una scelta non facile che nasce dall’esperienza di quest’ultimo anno e dai dubbi crescenti sulla capacità del Pd di proporsi come forza riformista e innovativa, come aveva annunciato di voler fare un anno fa.
Il Pd aveva un’obiettivo ambizioso al quale avevo aderito con entusiasmo e che ora faccio fatica a riconoscere in questo partito, in numerosi ambiti. Dalle posizioni ambigue su importanti temi etici e valoriali, alla gestione di processi politici locali e nazionali, ma soprattutto alle posizioni in quegli ambiti più cruciali per la crescita del Paese: istruzione, ricerca e innovazione. Era su questi temi che coltivavo le aspettative maggiori verso il Pd. Ero stata molto delusa dalle politiche del Governo Prodi, ma speravo che con il Pd si aprisse una stagione nuova, fatta di elaborazione di idee e proposte significative. Di fronte alle posizioni del Pd su questi fronti non posso che essere sconcertata. Non ho visto nessuna proposta incisiva, se non “andare contro” la Gelmini. Peraltro tra tutti gli argomenti che si potevano scegliere per incalzare il ministro sono stati scelti i più scontati e deboli. Il mantenimento dei maestri, le proteste contro i tagli, la retorica del precariato, tutte cose che perpetuano l’immagine della scuola come strumento occupazionale. È questa la linea nuova e riformista del Pd? Cavalcare l’Onda non basta. Serve una proposta davvero nuova, che ribalti le attuali logiche di funzionamento della scuola anziché difenderle. Ma non ho visto niente di tutto questo.
La mia delusione è tanto più forte quando penso alla propaganda fatta un anno fa riguardo all’apertura a idee nuove, quando penso alle molte persone provenienti da ambiti professionali qualificati che si erano avvicinate al progetto del Pd e che avrebbero potuto portare un contributo in termini di idee e innovazione. Che fine hanno fatto queste persone? Quali nuove modalità di coinvolgimento e ricambio ha creato il Partito? Io stessa, che ero stata contattata (così mi era stato detto) per le mie competenze “tecniche”, in un anno di vita del Pd non sono stata consultata mai nemmeno per un parere. Questa emarginazione non ha certo offeso né me né, credo, le altre persone già molto impegnate fuori dalla politica. Mi chiedo però come mai, un anno fa, ci era stata chiesta una collaborazione con tanto apparente entusiasmo quando evidentemente di questa collaborazione non c’era bisogno. Mi chiedo se era necessario fare tanto rumore sul ricambio generazionale quando basta guardare chi sta ancora in cabina di regia per capire che, in fondo, non è cambiato niente.
Inneggiare al cambiamento, all’idea di una società e di una politica nuove serve a poco se manca il coraggio di intraprendere fino in fondo le azioni necessarie a realizzare queste idee. Sartre diceva che noi siamo quello che facciamo. Sono le nostre azioni che ci definiscono, stare a discutere su ciò che ci piacerebbe essere serve a poco: la gente ci giudicherà per quello che abbiamo fatto. E di quello porteremo la responsabilità. Per quanto mi riguarda non voglio portare la responsabilità delle scelte che sta facendo questo partito che in larga parte non condivido e sulle quali non ho avuto e non ho possibilità di incidere in alcun modo. Per questo ho deciso di dimettermi.

Irene Tinagli


Irene Tinagli insegna alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh. Allieva di Richard Florida, è esperta di politiche pubbliche per l'innovazione, la creatività e lo sviluppo economico. Lavora come consulente per il Dipartimento Affari Economici e Sociali dell'Onu e per la Commissione europea. Il suo ultimo libro è “Talento da svendere” (Einaudi 2008).
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